Cinema: “Alza la Testa”

Vi ricordate il casting della Bianca Film a Stazione Birra, il ragazzo che interpreta il figlio di Castellitto (Gabriele Campanelli) è stato scelto durante il nostro evento, con chi si allena? molti dei nostri ragazzi hanno fatto le comparse, è da andare a vedere di seguito un’itervista al regista scovata online:

Alessandro Angelini: i miei uomini “forti” sono i più fragili
di Maurizio Ermisino da www.moviesushi.it

Gabrile Campanelli - Sergio CastellittoIdentità. Confine. Confini non solo geografici, ma confini soprattutto interiori, intimi. La boxe come scuola di vita, parare i colpi sul ring per imparare a parare i colpi bassi della vita. Tenere alta la guardia, e rialzarsi dopo ogni caduta. Perché non è importante quante volte si cade, ma come ci si rialza dopo ogni caduta. Di tutto questo parla Alza la testa, di Alessandro Angelini, presentato in concorso al Festival di Roma, e nelle sale in questi giorni. Il film ha regalato a Sergio Castellitto il Marc’Aurelio d’Oro come miglior attore, com’era capitato a Giorgio Colangeli tre anni fa proprio con il film d’esordio di Angelini, L’aria salata. Segno che Angelini ci sa fare nella scelta e nella direzione degli attori. Ma il suo ultimo film ha così tanti temi che vale la pena di approfondirli. Come abbiamo fatto in questa lunga intervista.
Dopo L’aria salata anche Alza la testa è la storia di un rapporto padre-figlio. Perché le interessano questo tipo di storie?
Io prima di tutto sono un padre. Rispetto a L’aria salata c’è uno sguardo differente. Lì c’era un figlio che guardava suo padre, e cercava di avvicinarsi. Qui c’è uno sguardo di un padre su suo figlio, un padre che fa fatica a comprendere la sua funzione. Non è un caso che la sua figura di padre si mescola continuamente con quella di allenatore. E non è un caso che è un padre che è anche madre. Sebbene sia un uomo dal ceto sociale non elevato, che vive in un ambiente virile fatto di soli uomini, si vergogna del suo lato femminile. È costretto a far da mangiare al figlio, a fargli il bucato. Ci si immagina un uomo che segue il figlio in ogni momento della giornata, anche con un lato materno. Questa è già una differenza sostanziale. Mi piace vedere il film come al percorso di un uomo, a una caduta e a un’impossibile redenzione. In seguito ai suoi errori perde suo figlio, ed è impossibile recuperare una perdita così grande. Ma in qualche modo riesce a rialzarsi.
I suoi personaggi si muovono in un contesto molto particolare, la periferia romana, dove si incontrano italiani e stranieri…
Uno dei temi del film è l’identità. Io parto sempre dall’osservazione, mi considero ancora un documentarista. Ambientando un film nella periferia estrema di Roma, Ostia e Fiumicino, che sono anche il confine geografico di Roma, perché poi c’è il mare, ci si rende conto che sono luoghi condivisi, ci sono italiani e persone che vengono da altri paesi. Durante la fase di scrittura ci siamo chiesti che fine avessero fatto le centinaia e migliaia di albanesi e romeni che erano transitati dall’Italia dal 1991 a oggi. Molti sono passati, hanno raggiunto altri posti, molti si sono fermati e hanno creato delle famiglie, anche sposando degli italiani. Era importante non tradire questo sguardo della realtà, e raccontare questa convivenza non sempre facile. Di fatto Mero lavora con un operaio romeno, Radu: è suo amico, però è diverso da lui. E non è mai accettato completamente quando le cose vanno male. Per Mero, abituato a lavorare sulle barche ferme, andare in viaggio era come mettersi in una situazione opposta a quella di partenza. E lì c’è lo scarto del personaggio, che diventa straniero in una terra straniera.
Mero rappresenta un certo tipo sottile di razzismo di una certa generazione: lo straniero va bene come amico, ma non se è la fidanzata del figlio. Che invece è più aperto…
Sì, Lorenzo, il figlio di Mero, è figlio di un italiano ma anche di un’albanese, che è la parte mancante della sua vita. Uno dei motivi per cui Gabriele è stato scelto è questo suo modo di balbettare, che raccontava molto, qualcosa come un affetto interrotto. Quando incontra una ragazzina romena va alla ricerca di una parte mancante, di qualcosa che è nella sua natura, cioè l’apertura verso gli altri. Mentre per le persone più grandi è più difficile accettare. Per fortuna oggi non si sente più così tanto la frase “ci portano via il lavoro”. Per una certa generazione è più difficile. Una domenica stavo facendo benzina, e ho trovato un signore arrabbiato perché voleva farsi cambiare dei soldi e un ragazzo dell’Ucraina non lo capiva. Ha detto: “da domani vado in giro con un cartello: sono italiano, chi vuole parlare con me?” Una cosa di questo tipo in qualche maniera racconta la difficoltà di tollerare le cose nuove che si può avere a cinquanta, sessant’anni.
Vi siete ispirati a qualche altro film sulla boxe?
La boxe è uno sport che mi piace, e ho visto tutti i film più belli sulla boxe, da Million Dollar Baby a Toro scatenato, a Fat City. Ma rifare quei film sarebbe stato un suicidio, perché questo non è un film sulla boxe come lo erano quelli. Qui c’è uno sguardo sulla boxe, che è un po’ una metafora sulla vita: un padre allena suo figlio cercando di risparmiargli i colpi bassi della vita. Non ci siamo ispirati a questi film. Di quei film posso aver sposato l’ambizione, quella di non racchiudere il film dentro quattro mura, ma solo perché pensavo che dovesse avere un respiro diverso, affrontare tanti temi, avere un percorso un po’ sinuoso come può averlo la vita, che ti costringe a fare progetti e in un minuto cambia tutto. Fare un film che somigli il più possibile alla vita è l’ambizione di ogni sceneggiatore. Questo è un film fatto più con l’emotività che con la narrazione.
A proposito di boxe, ha girato un documentario sulla boxe, quindi è un mondo che per lei non è nuovo…
Ho praticato un po’ di boxe, ma non posso definirmi un pugile. Nel 2001 ho realizzato un documentario sulla boxe, a Cuba, e prima di partire sono stato un po’ in una palestra di boxe. La boxe in qualche modo mi è piaciuta, ed era troppo tardi per iniziare a praticarla, così l’ho praticata solo a livello di prepugilistica. È un ambiente che mi affascina, perché ci sono delle persone che ci provano continuamente. Ormai la boxe non cambia la vita a nessuno, lo sentiamo anche nel film. Ma la gente continua a farla, ed è un modo per dire: io esisto. Ho trovato Gabriele in un posto a Ciampino che si chiama Stazione Birra, dove praticava kickboxing.
Come ha scelto Anita Kravos per interpretare Sonia?
Era semplicemente la più brava. E ha vinto contro una schiera di maschietti, che erano quelli che venivano a fare il provino. Inizialmente pensavo che il ruolo di un trans sarebbe dovuto andare a un uomo, invece è arrivata lei e mi ha convinto. Ha colto da subito la personalità del personaggio, ha raccontato con apparente semplicità quello che era il percorso del personaggio.
Nei suoi film ci sono quasi sempre universi maschili…
Forse mi piace l’amicizia virile, mi piace che gli uomini si sappiano conoscere e guardare per quello che sono veramente. Anche quando sono fragili. Nei miei film i personaggi che sembrano più forti sono sempre quelli più deboli. Se penso a L’aria salata il personaggio più fragile era quello di Sparti, il padre, che invece sembrava quello capace di padroneggiare ogni situazione. E qui il personaggio più debole non è Sonia, ma Mero. Lei ha trovato la sua strada, viene già da un percorso più complicato e sa che la vita non le riserverà soltanto gioie. Mero invece ha bisogno sempre degli altri. Ha bisogno di prendersi cura di qualcuno, così alla fine lo fa con una sconosciuta. Non è un personaggio che è mai cresciuto veramente: quando all’inizio del film vedo questi cinque uomini che vanno a un matrimonio in furgone, da soli, senza donne che si prendono cura di loro, vedo dei ragazzini, che mi fanno tenerezza.
Come ha lavorato alla tecnica di riprese e alla fotografia?
C’è molta macchina a mano nella prima parte del film. Nella seconda parte la macchina si ferma, perché il movimento è già nei due personaggi, nella ricerca di Mero, e in Sonia. C’è già molta tensione, e sottolinearlo anche con i movimenti di macchina sarebbe stato superfluo. Sul colore abbiamo lavorato molto, ma c’è anche un fatto geografico: abbiamo iniziato a girare le prime sequenza del film ad ottobre, durante quelle famose ottobrate romane, e nelle scene c’è ancora un po’ di calore. Quando siamo partiti per andare a Gorizia abbiamo trovato il freddo vero: ci sono almeno due posti, quando vedo il film, che mi fanno sentire freddo. Ho avuto il coraggio di portare tutta la troupe in Slovenia, nel posto dove nasce la Bora (il terribile vento che soffia su Trieste, ndr), e tutti non riuscivano a uscire dalla roulotte. Dal punto di vista cromatico tutto questo entra nel film. Il fatto di avere come operatore Arnaldo Catinari, che considero uno dei migliori, mi ha aiutato molto.
La scelta di ambientare il film a Fiumicino e poi a Gorizia ha a che fare con l’idea di confine?
Sì. Sono entrambi due confini. Il primo è il confine naturale di Roma, visto che c’è il mare. E l’altro è un confine di identità: su quel pezzetto di terra che prima ci separava dalla Jugoslavia e adesso dalla Slovenia, si parlano molte lingue, c’è un continuo passaggio di persone e di merci. In qualche maniera, essendo questo un film sull’identità, mi sembrava giusto mostrare questi confini.